Se n’è andato lo scorso 21 ottobre, ma la sua memoria rimarrà nell’animo di tutti i pontogliesi come un inno alla libertà. Umberto Giovini era l’ultimo partigiano delle leggendarie Fiamme Verdi di Pontoglio, note anche come Brigata Tarzan, dal nome di battaglia del loro comandante, l’indimenticabile Tomaso Bertoli.
Con Giovini se ne va, infatti, anche una fetta di storia del paese e di tutta la Valle dell’Oglio. Non solo la Resistenza, perché prima di diventare partigiano Giovini aveva già vissuto «due vite» e a soli venticinque anni aveva già concluso la terza, quella della clandestinità e della riconquista della libertà. Giovini era nato il 9 luglio 1920 e ci ha quindi lasciati proprio pochi mesi prima del suo centesimo compleanno. Nato in ospedale a Chiari, ha però sempre vissuto nelle campagne che confinano con Palosco. Rimasto orfano di padre nel 1929 ed essendo figlio unico, la sua vita è cominciata in salita quando già da giovanissimo dovette portare a casa la pagnotta lavorando duramente nei campi, dove peraltro perse due dita di un piede. Proprio questa sua menomazione fu però uno dei motivi che lo salvò in guerra, dato che rimase quasi sempre nelle retrovie come ausiliario.
Dopo la dichiarazione di guerra di Mussolini, nel 1940 fu costretto ad arruolarsi, prima destinato ai Bersaglieri e poi agli Alpini, con i quali fu prima spedito nel Sud Italia per imbarcarsi per la campagna d’Africa. Una volta a Napoli, la fortuna lo assistette per la prima volta, quando fu risparmiato e mandato in contrordine in Liguria, dove aveva il compito di pattugliare la Riviera nei pressi di Sanremo. La pagina più triste della sua giovane età inizia però nel 1941, quando viene spedito in Unione Sovietica con il CSIR a dare man forte all’offensiva italo-tedesca della campagna di Russia. Obbligato come migliaia di altri connazionali alle condizioni inimmaginabili dell’inverno russo, non partecipò a Nikolaevka ma ad altri scontri, testimoniando il sacrificio dei nostri soldati e il dramma del ritorno a casa.
Riuscito a tornare in Italia, Giovini finì a Napoli, dove lo colse la notizia dell’armistizio l’8 settembre 1943. In quel clima di confusione generale, non ci pensò due volte e con mezzi di fortuna riuscì a raggiungere Pontoglio, scendendo dal treno prima della stazione di Chiari, dove erano in atto i rastrellamenti degli occupanti nazisti. Nascostosi nella cascina del proprietario terriero che già lo aveva visto lavorare da piccolo, Giovini si unì alla Resistenza pontogliese e partecipò a gran parte della azioni della Brigata Tarzan. Di giorno lavorava nei campi e di notte entrava in azione coi compagni per rendere la vita difficile ai nazisti e ai repubblichini. Memorabili i continui furti di munizioni nel deposito a Torre Passeri di Palosco e quello delle ricetrasmittenti della stazione di Palazzolo, che misero in crisi le comunicazioni e l’autosufficienza militare dei nazifascisti.
Nemmeno dopo la Liberazione la sua vita fu semplice, perché fu ferito nell’ultima azione fascista nel Bresciano, a Coccaglio (vedi box, Ndr). Dato per morto, fu poi ritrovato da Tarzan in ospedale a Chiari, dove rimase per mesi prima di fare ritorno a casa e cominciare la sua quarta e ultima vita, quella della famiglia, del lavoro e della meritata pensione nel 1971. Sposatosi con Giuditta Raccagni nel 1946, Giovini lavorò alla manifattura di Pontoglio e crebbe due figli, un maschio e una femmina. Al suo funerale, lo scorso 23 ottobre, sono stati in molti a volergli tributare l’ultimo doveroso saluto.
L’ECCIDIO DI COCCAGLIO, QUEL 26 APRILE 1945 «Io unico sopravvisuto. Un dolore straziante»
Perché la piazza centrale di Pontoglio è intitolata al 26 Aprile e non al giorno precedente, unanimemente considerato quello della Liberazione? Sono stati e sono ancora in molti a chiederselo. La risposta va ricercata nelle pieghe della storia locale che si intreccia con quella con la S maiuscola. E, neanche a farlo apposta, Umberto Giovini ha avuto un ruolo fondamentale anche per questo, dato che è solo grazie a lui, unico sopravvissuto della strage consumata quel giorno, che sappiamo cosa realmente accadde.
L’episodio, tuttavia, non si è svolto a Pontoglio, ma a Coccaglio. Giovini ha raccontato che il giorno successivo alla Liberazione di Milano, quindi il 26 aprile 1945, i repubblichini stavano marciando da sconfitti verso il capoluogo lombardo. Da Salò la colonna motorizzata guidata dal temibile gerarca fascista Roberto Farinacci (fucilato poi due giorni dopo a Vimercate) stava transitando nel Bresciano e stava giungendo a Rovato. I partigiani pontogliesi, avvertiti dalla Franciacorta, si mobilitarono per incontrarli. È stato lo stesso Giovini, nel libro-testimonianza La voce della memoria (Massetti Rodella Editore, 2015) a raccontare l’accaduto.
«Partimmo con un gruppetto fino a raggiungere Coccaglio, dove c’erano anche partigiani del posto e clarensi. All’arrivo della colonna, scendemmo dal nostro camion e intimammo l’alt ai repubblichini, richiedendo la parola d’ordine. Loro però ci hanno risposto: “Ma quale parola d’ordine? Noi siamo fascisti!”, e hanno cominciato a spararci coi mitra. Dei nostri che si trovavano lì in quel momento morirono quasi tutti, chi sul colpo, chi poco dopo: in tutto persero la vita in tredici. Io fui colpito da una pallottola che mi perforò il polmone e restai a terra vomitando sangue. Ferito, ma sembravo morto. Furono momenti concitati. C’era buio. Un tedesco mi trovò a terra agonizzante – mi ricordo che mi trovò puntandomi una torcia sul viso – e mi portò al vicino ospedale di Coccaglio, dove mi hanno ricoverato. Solo in un secondo momento venni a sapere che due dei nostri di Pontoglio erano stati presi in ostaggio dalla colonna, che li usava come testa per evitare altri attacchi di partigiani. All’altezza di Cassinone, prima di Seriate, i due erano però riusciti a scappare. La mia convalescenza è durata diversi giorni e in molti, sia a Coccaglio che soprattutto a Pontoglio si chiedevano che fine avessi fatto. […] Fu Tomaso (Tarzan, Ndr) a scoprire che ero ricoverato: glielo dissero i medici qualche giorno dopo l’eccidio, mentre si apprestava a lasciare al pronto soccorso un ferito grave. Solo dopo il mio arrivo a casa, però, mi comunicarono della morte di tutti i miei compagni. Fu un dolore straziante. Ovviamente non partecipai ai funerali perché ancora in ospedale».
Quel giorno di quasi 75 anni fa morirono eroicamente dieci pontogliesi: Francesco Bonomi, Luigi Busetti, Giovanni Comotti, Girolamo Festa, Angelo Forlani, Lorenzo Marella, Luigi Marenzi, Luigi Norbis, Giovanni Pasinelli, Pietro Pasinelli e, con loro, anche due partigiani coccagliesi e due erbuschesi. Altri due pontogliesi, Primo Marchetti e Gerolamo Festa, morirono pochi giorni dopo. Anche Coccaglio non dimenticò mai quel giorno, tant’è che la strada in cui si consumò la strage fu presto rinominata via Martiri della Libertà, andando a sostituire la precedente toponomastica di via Bergamo, nome che però ancora alcuni coccagliesi utilizzano per indicarne la posizione.
Giornalista pubblicista, classe 1986, nato a Palazzolo sull’Oglio dove risiede da sempre. Laureato magistrale alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, lavora come corrispondente per un importante quotidiano locale.
Appassionato di cinema, di storia, lingue straniere e geopolitica.