«Mai nella vita avrei pensato di vivere un’esperienza del genere». Eppure, è proprio la vita che destabilizza e fa ritornare sui propri passi, sparpagliando lungo il cammino umano strani eventi.
Veronica Testa, imprenditrice con esperienza ventennale nel campo dell’estetica, nella primavera del 2018 si trova a collaborare con OK School di Brescia: realtà che offre corsi professionali (diurni e serali) a giovani parrucchieri ed estetisti. Durante il rituale giro di presentazione della scuola, il responsabile accenna al fatto che alcune studentesse svolgono servizio anche in carcere. Una frase en passant che sembra fine a se stessa, ma che già lascia un segno. «Tornai a casa e la prima cosa che dissi a mio marito fu che, se mai mi avessero offerto tale opportunità, non avrei mai accettato». Il cervello razionalizza, la pancia segue l’istinto come, quando nel suo studio (Il Tempio della Bellezza a Capriolo, Ndr) arriva inaspettata la proposta di tenere un corso di ricostruzione unghie delle mani alle carcerate della Casa di Reclusione di Brescia-Verziano: «Mi sono sentita dire di sì al telefono tra il mio stesso sgomento e quello della cliente su cui stavo lavorando». Perché si sa che spesso le esperienze che più ci arricchiranno sono proprio quelle che più ci fanno paura.
Il corso avrebbe fatto parte di uno dei vari progetti interamente finanziati da Regione Lombardia per dare alle detenute delle competenze da spendere al di fuori della struttura carceraria una volta riabilitate, ma ciò non significava certo che sarebbe stato un corso come qualunque altro. «Il carcere è un ambiente duro sia per chi ci vive, sia per chi ci lavora. Fin dal primo giorno la sola possibilità di camminare per i corridoi e di poter entrare ed uscire a mio piacimento mi ha suscitato un grande senso di libertà e di gratitudine per tutto ciò che ho: la mia famiglia, il mio lavoro, la mia indipendenza».
Inoltre, Veronica deve conquistarsi la fiducia delle allieve e deve riuscire a farle lavorare in gruppo, superando le dinamiche sociali preesistenti di simpatie, antipatie e piccole cricche tipiche di qualsiasi classe, esacerbate dal tipo di comunità in cui vivono le sue studentesse. «Contrariamente a ciò che succede fuori dal carcere, il primo approccio delle ragazze verso di me è stato informale, dandomi del tu, ma alla fine è arrivato il lei e l’appellativo di profe: un segno di rispetto verso la professionalità che ho portato in quel luogo».
Ci sono state, poi, delle difficoltà oggettive dato che la ricostruzione delle unghie delle mani prevede l’uso di strumenti potenzialmente pericolosi (come gli spingi cuticole), o nocivi (come i primer e i gel), che alcune detenute avrebbero potuto usare impropriamente per far del male a se stesse in cerca di uno spiraglio di libertà o compassione. «Avevo materiale per far lavorare una ventina di persone, eppure a fine giornata non mi è mai mancato nulla dall’inventario. Facevano a gara per aiutarmi a portare i pesi dall’aula al corridoio». Del resto, da brava insegnante, Veronica ha voluto affiancarsi alle ragazze in maniera positiva, senza pregiudizi: «Non ho voluto sapere le storie di chi avevo davanti e quando le ragazze stesse tentavano di spiegare le proprie vite, o quelle delle compagne cercavo di cambiare argomento». E ha anche condito il suo atteggiamento non giudicante e la sua competenza con una buona dose di ironia. «Una mattina arrivai un po’ alterata a causa di uno screzio con un altro automobilista: con le ragazze ci scherzammo su, dissi di prepararmi il letto perché c’era mancato poco che gli mettessi le mani addosso. In fondo, le detenute rinunciavano all’ora d’aria nei giorni del corso e volevo perciò che fosse una giornata di lavoro, ma anche di leggerezza».
Alla domanda sul suo futuro di insegnante nelle carceri, Veronica risponde di pancia come la prima volta: «Sì, ma non ora però. L’esperienza in carcere è talmente forte e profonda che può diventare assuefante, il distacco è necessario prima di ricominciare».