Belluno, primi anni Settanta. Amerigo Lantieri de Paratico, capriolese classe 1942, si trova lì per prestare servizio nelle fila delle Penne nere. Ma al di là della vita militare, coltiva una passione crescente per la macchina fotografica: uno strumento ideale per conciliare arte, tecnica e documentazione. E per catturare le atmosfere del paese di Casso, appollaiato in cima agli strapiombi del famigerato Vajont.
Lantieri è tornato a casa nel 1996, col grado di colonnello. Si tratta probabilmente del membro più conosciuto di una secolare dinastia che ha dominato queste zone, complice anche una decennale presidenza della Casa di Riposo e una parentesi come sindaco dal 2006 al 2009.
La fotografia ha sempre e comunque avuto un posto privilegiato nella sua vita e diverse mostre collettive e personali lo possono testimoniare: Belluno, Merano, Iseo, Bergamo, Salò e ovviamente Capriolo. Da ultima, la mostra Lontani ricordi, che si è svolta dall’8 ottobre (come sempre, nell’anniversario del disastro del Vajont, risalente al 1963) al 10 novembre alla Biblioteca comunale. Il colonnello ci ha parlato di quei ricordi e della sua passione.
Perché ha scelto proprio Casso?
Negli anni Settanta questo piccolo paese era diventato una meta per escursioni domenicali con la famiglia e gli amici del Circolo Fotografico Bellunese, del quale poi divenni presidente. Rimasi colpito da quell’atmosfera sospesa tra reale e fantastico, quasi fosse fuori dal tempo: c’era materiale valido per mettere alla prova la mia curiosità fotografica. Dato che si trova isolato in posizione sopraelevata, venne solo sfiorato dal disastro della diga. Eppure quelle antiche case di pietra, i viottoli e i pochi abitanti, soprattutto anziani, trasmettevano un grande senso di abbandono.
È per questo che nelle sue foto prevalgono strutture architettoniche e paesaggio naturale?
Sì, la figura umana scompare quasi del tutto. È una scelta tecnica che devo in particolare allo studio di Ansel Adams, fotografo statunitense celebre per i suoi scatti in bianco e nero di parchi nazionali. Dal punto di vista ottico e chimico, devo ringraziare i manuali di Oscar Ghedina.
Quali tecniche ha usato?
Ho tentato con pellicole tradizionali e diapositive a colori, ma la resa non catturava la crudezza di quello scenario. Ecco perchè poi ho provato con una pellicola all’infrarosso, che restituisce tonalità di grigio impercettibili all’occhio umano e mi ha permesso di giocare meglio sui contrasti di luce e ombre. Fino al 2007 ho sviluppato e stampato personalmente i negativi, dopodichè sono passato al digitale. Per le 22 fotografie della mostra, li ho scansionati e ne ho sviluppato i file per la stampa.
Si è mai cimentato in altre forme più o meno artistiche?
Da ragazzo tentai per un po’ col disegno a china, ma sentivo che non era la mia strada. Grazie all’incontro con la mia prima macchina, una Bencini Comet III nel 1955, mi resi conto che la fotografia poteva essere una forma di documentazione molto più affine e comoda, soprattutto oggi, per rievocare certe sensazioni.
Sensazioni che anche oltre quarant’anni dopo rimangono vivide.