Nel giorno del suo centoduesimo compleanno, mentre gli altri le si avvicinano per congratularsi con lei del raro traguardo raggiunto, io resto in disparte ancora per qualche minuto a guardarle le mani. Quelle mani che da più di trent’anni a questa parte ricordo adornate da minuscoli coriandoli di macchie scure: «È l’età», mi diceva quando ero bambina e nella cucina di casa sua a Palazzolo aspettavo che finisse di impastare la frolla per la crostata, sapendo che presto sarebbe arrivato il momento di assaggiarla, così, ancora cruda, ma dolce e burrosa.
Quelle mani che non hanno mai smesso di esercitare il mestiere – l’arte imparata dalle donne della sua famiglia – e che ancora oggi imbastiscono, cuciono e rammendano. Mani doloranti da tempo, nodose e con le dita deformate da artrosi, artrite e osteoporosi, ma che nell’ultimo secolo raramente si sono fermate ad autocommiserarsi per le difficoltà inevitabili che una vita talmente lunga porta con sé. Quelle mani che, francamente, hanno pulito il fondoschiena di tre figli e sei nipoti – incluso il mio – considerando quel gesto così terreno un dono divino perché «un bambino è sempre una benedizione dal Cielo».
Elina Rossi Cadei è nata il 28 settembre 1916 a Paratico da genitori di origine piemontese. Il padre era ferroviere: una professione ben retribuita, che permetteva a tutta la famiglia di viaggiare agevolmente. Il mio bisnonno doveva essere un uomo buono, molto particolare, minuto con quei suoi baffetti curati, rispettato dai figli più per amore che per timore. «Una volta in pensione, si alzava all’alba e si incamminava a piedi da Paratico verso Sarnico e ancora più su, macinando chilometri in riva al lago col giornale sotto braccio». Ecco, so da dove vengono i miei geni da podista: mi piace immaginare che anche per lui camminare fosse motivo di riflessione, tempo per pensare, oppure – più semplicemente – con un così alto numero di donne a casa (una moglie e cinque figlie) sentisse la necessità giornaliera di allontanarsi dal gineceo per un po’.
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La madre fu longeva quasi quanto mia nonna: si spense verso i cent’anni in seguito ad una caduta e alla conseguente rottura del femore; di lei mi rimane una coperta di cotone bianco creata all’uncinetto ed il ricordo filtrato dalla nonna di come la mia antenata la domenica mattina passasse di casa in casa ad iniziare il risotto alle famiglie che glielo chiedevano. A quanto sembra, il soffritto non era cosa nota nel bresciano, lo importarono loro da Arona.
Fu così che mia nonna Lina – così la chiamiamo noi – crebbe in riva al Lago d’Iseo: aveva fratelli che ricorda lucidamente e che io non ho mai conosciuto, aveva sorelle maggiori che la fecero diventare zia in tenera età e con le quali lavorava nella sartoria di famiglia, dopo un breve periodo come tagliatrice di accappatoi allo stabilimento Sebina di Sarnico. «Ero molto giovane, ma sapevo tagliare bene. Un giorno una delle altre operaie mi disse che avrei potuto portarmi via dei pezzi di spugna senza farmi scoprire dal capo reparto, se li avessi nascosti nella biancheria intima. Non l’avrei mai fatto. Io non ero stata cresciuta in quel modo».
Mio nonno Carlo Cadei – da cui mio fratello (primo nipote maschio della famiglia) prende il nome – era per lei letteralmente il ragazzo della porta accanto. «Mi conosceva da quando eravamo bambini, ma mi venne a cercare (la pudica retorica del tempo per dire che le chiese di fidanzarsi con lui, Ndr) dopo il periodo di servizio militare trascorso in Africa». Elina accettò il nonno, che era bello come il sole, e accettò anche di abbracciare uno stile di vita più modesto, che avrebbe sfamato e istruito i futuri tre figli sia con lo stipendio di un operaio specializzato, sia con il suo lavoro di sarta a casa. La fabbrica che assunse mio nonno era la Marzoli di Palazzolo. E fu così che all’alba del secondo conflitto mondiale, si sposarono e si trasferirono nel mio paese natale.
Si sa che le persone anziane tendono a ricordare il passato remoto più di quello prossimo. Chiedere oggi a mia nonna di parlare della guerra è come leggere un dettagliato diario scritto da una giovane donna negli anni Quaranta. Tutto nella sua mente ancora molto lucida è vivo, presente, doloroso. Abitavano vicino al ponte della ferrovia, al di là del fiume sulla sponda bergamasca. Gli Alleati bombardavano il ponte nel tentativo di interrompere il passaggio dei treni merci che trasportavano rifornimenti a tutta la provincia. «Eravamo tutti magri, scavati dalla fame e dalla paura. Compravamo farina tagliata con la sabbia che sentivamo fra i denti quando mangiavamo il pane quotidiano. Tuo padre era nato di un chilo e due etti, nutrirlo e fargli prendere peso era un’impresa. Per non parlare delle sirene che annunciavano l’imminente arrivo di un velivolo e quindi di una bomba. C’era solo da pregare e sperare che non sbagliassero il bersaglio: che invece del ponte, l’ordigno non colpisse le nostre case». Il nonno doveva continuare a lavorare perché la Marzoli produceva munizioni: la nonna e mio padre sfollarono a Paratico dalla famiglia di lei.
La guerra finì, la vita continuò. Arrivarono altri due figli e sei nipoti che si strinsero attorno a lei il 16 novembre del 1988, quando il nonno improvvisamente ci lasciò. Mia nonna è una donna molto religiosa che crede nella vita oltre la morte, ma la perdita e la mancanza sono un’altra faccenda – per niente spirituale, totalmente carnale – che attraversa ogni fibra dell’essere umano. Io e mia cugina passammo tanti fine settimana dalla nonna in quel periodo. Mia madre e mia zia avevano pensato bene che due bambine di dieci e sette anni avrebbero dato un senso a quel dolore. E noi ci divertivamo come matte nel lettone la domenica mattina: ce lo meritavamo anche perché prima di coricarsi si doveva recitare il rosario e i cento requiem, sedute in cucina accanto alla stufa.
Elina uscì dal suo appartamento nel quartiere San Rocco per trasferirsi alla Casa di Riposo di Adro circa un decina di anni fa. Una decisione presa da lei stessa per ovviare ai problemi del corpo e alla parziale infermità delle gambe che l’avrebbe colpita a breve. Un nuovo capitolo della sua vita in un luogo che le permette di continuare a dedicarsi ai suoi passatempi come la lettura (senza occhiali a 102 anni) del quotidiano, la tombola, la settimana enigmistica, il rammendo dei calzini di tutta la comunità.
Nel giorno del suo centoduesimo compleanno, le guardo le mani: mani che lavavano i panni nel lago gelato, che hanno pigiato i bottoni della prima lavatrice e hanno cambiato canale usando il telecomando; che hanno chiamato i figli con un cellulare e hanno anche delicatamente sfiorato un ipad. Le guardo le mani e mi avvicino. Perché da quelle mani sta per arrivare immancabile una carezza, una carezza lunga un secolo.