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E chi va

Serena, un ingegnere sarnicense nella tedesca Baviera

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Una laurea, una manciata di belle speranze e un Paese per vecchi. È la generazione dei cervelli in fuga. Uno di questi, molto incline ai numeri, appartiene a Serena Nicoli: ingegnere civile classe 1987 di Sarnico, che cinque anni fa si è costruita un futuro in Germania.

Cosa ti ha spinto a scegliere questo percorso di studi? Due grandi passioni: i Lego e la matematica. Da bambina adoravo giocare «a fare le costruzioni», come dicevamo io e i miei fratelli: mi ricordo interi pomeriggi uggiosi passati a cimentarmi nelle grandi opere. Poi la matematica, è stato amore a prima vista, ma non ho mai voluto insegnare: io volevo progettare.

Il tuo primo incontro ravvicinato col mondo del lavoro? Lavoravo in uno studio di progettazione a Milano: ero sottopagata, anche se lavoravo le mie undici ore al giorno. Insomma, il classico scenario che ha caratterizzato un po’ il ramo delle costruzioni negli anni dopo la crisi.

Come hai preso la decisione di partire? Era giugno 2013. Il mio ex compagno Nicola aveva trovato lavoro come ingegnere meccanico in Germania, al confine con l’Olanda. Mi chiese di trasferirmi con lui e accettai. Non fu facile. Presi coraggio e mollai un lavoro spiacevole, ma a tempo indeterminato. Data la mia natura secchiona, non ebbi molti problemi col corso di tedesco. Iniziai a lavorare a novembre, in un ufficio tecnico nella zona di Dusseldorf.

È stato difficile per te ambientarti? In quel periodo sì. Vivere in un paesino di 500 anime era deprimente. Poi io e Nicola abbiamo preso strade diverse e ho deciso di trasferirmi a Monaco. La vita in Baviera mi piace molto, i bavaresi sono dei festaioli, sempre di buon umore: iniziano a lavorare molto presto la mattina, ma alle quattro staccano, massimo le cinque. Alcune aziende al venerdì pomeriggio sono chiuse. Uscire dall’ufficio alle quattro dà un valore aggiunto incredibile alla qualità della vita. Ma ci sono delle difficoltà insormontabili per me.

Quali? Per prima cosa, i quindici gradi sottozero a gennaio, ma anche il ketchup sulla pasta (sì, alcuni lo fanno!) e la totale assenza del concetto di aperitivo. (Ride).

Di cosa ti occupi adesso? Lavoro come Key Account Manager per una ditta di materiali costruttivi, occupandomi della progettazione per il mercato italiano. Un buon compromesso che mi dà l’occasione di tornare cinque, o sei giorni al mese.

Nostalgia? Le prime volte, arrivando dall’autostrada, non appena vedevo il lago piangevo. La mia famiglia, le mie amiche, il profumo del fiume: mi mancava tutto. Mi manca anche ora, ma ci si abitua. Del resto, nessuna ditta italiana mi offrirebbe le stesse condizioni che ho qui. È bello sentirsi gratificati per il proprio impegno. La meritocrazia qui esiste ed è pure una spinta a migliorarsi.

Cosa diresti a tutti quelli in bilico tra restare e partire? Consiglio vivamente un’esperienza all’estero: di studio, o di lavoro. La cosa importante è capire che si può prendere in mano la propria vita e cambiarla, se la vita che abbiamo non ci soddisfa. Si può decidere poi di tornare, o di restare. In entrambi i casi, sono esperienze che ci cambiano, ci arricchiscono e ci rafforzano. Sentirsi prima un po’ immigrati, venire un po’ canzonati per il nostro accento, o per i classici cliché italiani e poi col tempo stringere nuovi rapporti fa solo bene. Il mio ragazzo, Peter, è austriaco, i miei nuovi amici sono per il 90 percento tedeschi. Se guardo indietro vedo una lunga strada con molte difficoltà. La salita è stata dura, ma da qua il panorama è una favola.

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