L’incontro con Fabio Pagani, giovane ricercatore e docente di greco e latino alla Catholic University of America di Washington, è fissato per la tarda mattinata di un caldo sabato di giugno presso un bar di Palosco che – pur non essendo il luogo assiduamente frequentato in adolescenza dal classicista paloschese – ha un non so che di evocativo rispetto al suo rientro in Italia per qualche giorno di vacanza con la famiglia.
A pelle Fabio mi appare una persona solare, aperta alla vita, alle sue opportunità e dopo un’ora di piacevole colloquio come previsto (ed un’ora regalatami senza accorgersi del tempo che passava), si scopre che la pazienza, la determinazione e la resilienza sono altrettante sue doti, probabilmente acquisite e sicuramente affinate nei suoi sedici anni lontano da casa.
Un curriculum ricco di esperienze – dalla Normale di Pisa a Tübingen in Germania, da Londra a Berlino e finalmente negli Stati Uniti – una formazione classica iniziata al Sarpi di Bergamo (che però tuttora non gli ha tolto l’interesse per letture scientifiche), una laurea triennale ed una magistrale presso l’Ateneo pisano: e la netta sensazione che il percorso di dottorato avrebbe dovuto intraprenderlo fuori dall’Italia.
Molti i temi trattati davanti ad un cornetto e cappuccino – dopo tutto la permanenza a Palosco è breve e bisogna approfittarne. Due quelli che per affinità di background ho trovato particolarmente interessanti: il concetto di didattica e quello di ricerca nelle università anglofone rispetto a quelle italiane, accomunate dall’attenzione dovuta al fruitore. Se l’idea preconcetta del ricercatore è quella di un topo da biblioteca, o di un rachitico personaggio curvo su un microscopio che non vede mai la luce del sole, Fabio la smentisce e mi spiega che la creazione e l’insegnamento dei corsi, il rapporto con gli studenti ed il network da intessere con i colleghi sono parte integrante e fondamentale del suo lavoro.
I programmi devono essere accattivanti, il docente deve avere la fila alla porta di interessati alle lezioni ed il feedback di fine semestre da parte degli studenti ha un peso considerevole nella valutazione dell’operato del ricercatore. Io ho memoria in Italia di noiosissimi corsi a scelta che per bassa affluenza l’anno successivo venivano resi obbligatori, ma questa è un’altra storia. Del resto, Fabio riconosce la finezza e la specializzazione dei ricercatori italiani che si applicano con certosina diligenza nei propri studi, ma sottolinea come a Londra e negli Stati Uniti abbia imparato come parlare e farsi intendere solo dai già convertiti e dagli entusiasti della materia non sia la carta vincente per garantirsi fondi per il proprio progetto e un contratto in università. Il risultato della ricerca deve arrivare ad un pubblico meno elitario per non rimanere chiuso in una torre d’avorio il cui accesso è permesso solo ad una ristretta cerchia di illuminati.
Un cervello in fuga? Indubbiamente, la posizione che occupa attualmente, le esperienze accademiche maturate, le opportunità di ricerca create ed offertegli – conveniamo – in Italia non le avrebbe mai vissute ed io mi sarei trovata ad intervistare un barone in zona pensione, invece del dinamico trentacinquenne di Palosco. Ma preferisco pensare a un cervello che ha saputo comprendere la bellezza della globalizzazione, dell’essere cittadino del mondo con uno spirito di adattamento darwiniano comune a tanti giovani italiani oggi.